Ho un terrazzino minuscolo al settimo piano ma davanti a me ho l’immensità del mare.
Sono come sulla tolda di una nave. L’acqua rotola e chiacchiera intorno alle barche dei pescatori: non è il cupo porto di Friedrich che inghiotte un guscio di noce tra due fiancate proterve, né quello brumoso di Monet. E’ un porto assolato, caldo dell’acqua materna da cui tutti nasciamo. La gente che brulica sulla banchina vive di quest’acqua, in simbiosi con l’acqua.
A fianco a me c’è una terrazza: porte e finestre sbarrate. Una pianta di limone, solitaria vedetta, accartoccia giorno dopo giorno le foglie sotto il sole come stringesse le braccia al petto per trattenere la vita. Ogni mattina distolgo lo sguardo per non vedere quell’agonia: che posso fare?
Forse scavalcare le inferriate e dissetarla...
E se qualcuno chiama la polizia?
E se cado di sotto? Guardo giù e mi vengono i brividi.
Ci vorrebbe una pompa che spruzzi fino a lì... non ce l’ho.
Ma l’amore è energia pura, come l’acqua.
Come l’acqua, ha il potere della creazione.
Aspetto che faccia buio per infilarmi di corsa nel portone, con la pompa nascosta nel carrello.
A notte fonda apro il rubinetto del terrazzino e alla luce dei lampioni alzo un arcobaleno d’acqua tra la mia mano e il vaso.
Sento l’acqua gorgogliare nella terra assetata e spandersi nella notte odore d’erba.
Ogni mattina vedo qualche foglia distendersi.
S’infittiscono.
Spuntano i boccioli.
Il limone crede che sia la pioggia, e alza i rami carichi al cielo per ringraziare.
Racconto pubblicato sulla rivista ItalianAmerica (Spring 2015, pagina 5):